Avevo già preparato altri post, ma alla fine ho deciso di pubblicare una mia riflessione sul voto referendario di quest’ultimo fine settimana, proprio a causa del quorum fallito, soglia sotto la quale il referendum non viene considerato valido.
Nel weekend dell’8 e 9 giugno 2025 si è votato per cinque referendum, eppure pare che in pochi se ne siano accorti davvero. I giornali ne hanno parlato poco, spesso in modo marginale o tecnico, e il dibattito pubblico è rimasto flebile, quasi svogliato. Eppure i quesiti in gran parte, 4 su 5, riguardavano importanti problematiche legate alla legislazione sul lavoro, mentre quello sulla modifica dei tempi per ottenere la cittadinanza italiana è stato accorpato agli altri.
In questo post però non intendo approfondire le tematiche proposte. Chi era veramente interessato lo ha già fatto prima del voto. In sintesi, comunque, le potete vedere anche nell’immagine del post. 😉
M’interessa qui, invece, sottolineare le problematiche legate ai referendum che sono diventati, ancora una volta, l’emblema di una crisi più ampia e profonda: quella della partecipazione, del rispetto istituzionale e della responsabilità politica.
Ricordiamolo: in Italia il referendum ha solo valore abrogativo. Si può solo cancellare, eliminare, azzerare. E una volta eliminata una norma, non c’è alcuna garanzia su cosa verrà messo al suo posto. Se verrà messo qualcosa.
È un meccanismo che può servire come correttivo, come argine ad abusi, ma non può sostituirsi al lavoro legislativo vero, alla costruzione di una visione politica. In passato, alcune vittorie referendarie si sono rivelate armi spuntate o addirittura boomerang. Un esempio su tutti: l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti nel 1993, salutata allora come una vittoria morale dopo Tangentopoli, ma che ha lasciato spazio al sistema dei rimborsi elettorali, meno trasparente e più discutibile sotto molti aspetti.
Questo accade perché abrogare non significa costruire. E senza una visione politica condivisa, il vuoto lasciato da una legge cassata può essere riempito in modo arbitrario, parziale o addirittura peggiorativo.
C’è poi un errore che ciclicamente la politica italiana commette: trasformare i referendum in bandiere identitarie. Anziché essere strumenti di partecipazione trasversale, diventano armi di battaglia tra schieramenti. O peggio ancora: strumenti per misurare la fedeltà dell’elettorato a un leader o a una sigla.
Quando si carica il referendum di significati ideologici e di parte, si nega la possibilità di un confronto serio sui contenuti. E si danneggia la sua stessa credibilità come strumento democratico. Così, il cittadino che vorrebbe votare sulla base della propria coscienza o riflessione si trova stretto tra slogan e polarizzazioni.
Ancor più grave, però, secondo me, è l’invito – più o meno esplicito – a non andare a votare. Lo abbiamo visto anche questa volta: molte forze politiche, anziché entrare nel merito dei quesiti, hanno preferito promuovere l’astensione. Si è trasformato un diritto – e in fondo anche un dovere – in una strategia tattica. Ma boicottare il voto per abbassare il quorum non è una vittoria politica: è una sconfitta della democrazia.
(Ricordo qui che negli anni tutti gli schieramenti a seconda del caso hanno invitato, o meno, la gente all’astensione.)
Chi invita a non partecipare sta di fatto dicendo che il popolo non ha diritto di parola. Che è meglio non decidere. Che è meglio l’indifferenza del rischio. È una forma sottile ma grave di delegittimazione della sovranità popolare. Delegittimazione che in questo caso ha portato a far sì che rimangano in piedi leggi ingiuste che danneggiano i lavoratori.
Tutto questo si inserisce in un contesto già segnato da una crescente disaffezione nei confronti del voto. Sempre più persone si sentono distanti dalle istituzioni, sfiduciate, invisibili. E quando anche l’informazione – che dovrebbe stimolare il dibattito, spiegare, approfondire – tace o banalizza, il danno è doppio.
I referendum di questi giorni ne sono la dimostrazione. Al di là del merito dei singoli quesiti, è mancata una discussione pubblica all’altezza. Sono mancati spazi di confronto, chiarezza, strumenti per capire davvero cosa si andava a votare.
Alla fine, ciò che resta secondo me è l’impressione di un’occasione sprecata. I referendum possono essere uno strumento prezioso, ma vanno maneggiati con cura. Servono cultura istituzionale, visione, responsabilità. Per me dovrebbe essere eliminato il quorum, in modo che anche l’astensione abbia un effetto chiaramente politico sulle scelte conseguenti.
Per cambiare davvero le cose, a ogni modo, non basta cancellare una legge. Bisogna avere il coraggio – e la competenza – di scriverne una nuova, migliore. Ma questo richiede politica, quella vera. Quella che oggi, forse, ci manca più di ogni altra cosa.
È da tantissimo tempo che in Italia e credo purtroppo, anche nel resto del mondo, non si fa più una politica vera e sana, dove si evidenziano sempre più carenza di spazi di vero confronti, comizi e strumenti necessari per capire cosa sia meglio votare e cosa no. Penso che la mancanza di informazione, specialmente sui referendum, sia voluta fortemente dai politici, che non sono più in grado di gestire una politica seria e costruttiva, ma come sappiamo ormai “solo di parte” per il proprio tornaconto personale. La parola politica” che ha in sé la
stretta correlazione di “polis” e quindi il significato di realizzare un buon governo per il popolo, si è snaturata nel tempo, non esiste più! Potremmo ribatezzare la parola “politica” in “prosopia”, si addice di più a ciò che sta succedendo in Italia e nel resto del mondo. Un abbraccio forte e grazie per la condivisione dei tuoi pensieri, con tante altre persone. Claudia
Un abbraccio forte e grazie per il commento. 😃😘
perfetta riflessione, concordo
!!! complimenti
Grazie Simona. Un abbraccio forte. 😘