Ci sono parole che sembrano appartenere a un’altra epoca, troppo grandi per i nostri tempi veloci.
Redenzione e perdono sono tra queste.
Le sentiamo associate a vecchi libri religiosi, a sermoni domenicali, a un linguaggio che sembra distante. Eppure, se le si osserva bene, sono tra le esperienze più profonde e necessarie della vita umana. Hanno a che fare con la possibilità – reale – di cambiare, di guarire, di ricominciare. Con il bisogno che tutti, prima o poi, abbiamo: essere perdonati e imparare a perdonare.
Ma cosa significano davvero? E perché ancora oggi, in un mondo iperconnesso e ipercritico, hanno una forza così potente?
Redenzione non è un termine astratto. È la parola che usiamo quando parliamo di chi ha toccato il fondo e ha trovato la forza di risalire. Non è solo una faccenda di fede: è un movimento dell’anima, spesso doloroso, sempre profondo. È la strada di chi si guarda allo specchio e non si riconosce, ma decide di non restare lì.
Sant’Agostino, per esempio, non era nato santo. Era un brillante intellettuale del IV secolo, ambizioso, assetato di piacere e riconoscimento. Ebbe un figlio fuori dal matrimonio, abbracciò per anni una filosofia alternativa al cristianesimo e visse, come racconta lui stesso, in un conflitto costante tra desiderio e verità. Non fu un colpo di fulmine spirituale a cambiarlo, ma un percorso graduale, fatto di delusioni, letture, amicizie, e soprattutto domande. Le sue Confessioni non sono un atto di autogiustificazione, ma il diario di un uomo che cerca se stesso. Il suo non è un miracolo, ma una trasformazione. Come tante che conosciamo, anche oggi.
San Francesco d’Assisi era il figlio di un ricco mercante. Voleva diventare cavaliere, sognava la gloria. Fu la prigionia in guerra e una lunga malattia a fermarlo. Ma non bastò: fu l’incontro fisico, concreto, con un lebbroso – una delle figure più emarginate della sua epoca – a scuotere qualcosa dentro di lui. Quell’abbraccio con l’“altro” fu l’inizio della sua redenzione. Una redenzione che passò dalla spoliazione, dalla rottura con la propria famiglia e dall’inizio di una vita essenziale, povera, vicina agli ultimi. Non fu un eroe. Fu un giovane inquieto che ha imparato a cambiare direzione.
Sant’Ignazio di Loyola, più tardi, incarna la stessa dinamica. Un militare orgoglioso, ferito in battaglia, costretto a letto per mesi. In mancanza di romanzi cavallereschi, legge le vite dei santi. E si scopre affascinato. Non da figure ideali, ma da uomini reali che hanno scelto di trasformare la propria ambizione in servizio. Inizia un viaggio interiore che lo porterà a fondare un ordine religioso, ma prima dovrà affrontare crisi, fallimenti, oscurità. Anche per lui, la redenzione è un percorso, non un traguardo.
Parlare di perdono è ancora più complesso. Il perdono è forse una delle sfide più alte dell’umano. Chiunque abbia sofferto per un torto sa quanto possa sembrare assurdo perdonare. Eppure, chi ci riesce, racconta di una libertà nuova. Perdonare non significa dimenticare, né giustificare. Significa smettere di essere prigionieri del male ricevuto. Significa scegliere di vivere, nonostante tutto.
Nel cristianesimo, il perdono ha un ruolo centrale, ma la sua forza non si limita al contesto religioso. È un atto umano, radicale. Anche Agostino dovette imparare a perdonare se stesso, così come Francesco a perdonare un mondo che lo aveva illuso. Ignazio, invece, usò il perdono come chiave per leggere la storia: anche quando le cose vanno male, c’è qualcosa da imparare, qualcosa che può redimere.
In un mondo dove l’errore viene spesso esposto, giudicato, archiviato – soprattutto online – redenzione e perdono sembrano andare controcorrente. La nostra cultura spesso non lascia spazio al ripensamento, alla trasformazione. Ma le storie dei santi, anche lette da un punto di vista laico, ci dicono altro: che la seconda possibilità è possibile. Che non siamo condannati a restare quelli che siamo stati.
E non serve essere religiosi per capirlo. Basta essere umani.
Redenzione e perdono sono due lati della stessa medaglia: quella della libertà. La libertà di cambiare, di lasciare andare, di vivere in modo nuovo. E sono forse, ancora oggi, l’atto più rivoluzionario che possiamo compiere.