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Guerra e petrolio

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NOTA: La parte iniziale del post è stata scritta prima dell’attacco americano di questa notte, la parte finale dopo.

Dietro al conflitto tra Israele e Iran, oltre ai vari proclami sulla “pace attraverso guerra” e sull'”annientamento del male”, si cela un complesso intreccio economico, nel quale il petrolio e il gas naturale giocano un ruolo centrale. In particolare, le minacce legate alla possibile chiusura dello stretto di Hormuz – un passaggio marittimo strategico attraverso il quale transita circa un quinto del petrolio mondiale – rappresentano uno dei nervi più sensibili della geopolitica energetica globale. Una sua chiusura, anche temporanea, avrebbe effetti immediati sui mercati internazionali, con rialzi dei prezzi e ricadute economiche planetarie.

L’Iran, sotto pesanti sanzioni occidentali da anni, ha progressivamente spostato l’asse delle sue esportazioni petrolifere verso l’Oriente. Oggi oltre il 90% del suo petrolio, secondo fonti concordanti, è destinato alla Cina, che rappresenta di fatto il principale acquirente e sostegno economico del regime iraniano. Non si tratta soltanto di un rapporto commerciale, ma di un’alleanza strategica che si fonda su interessi convergenti: la Cina ha fame di energia e mira a consolidare la propria influenza in Medio Oriente, mentre l’Iran ha bisogno di liquidità e sponde diplomatiche contro l’isolamento imposto dall’Occidente.

La reazione cinese agli sviluppi della crisi è, come spesso accade, calibrata e prudente. Pechino condanna le escalation militari, invita alla moderazione e, nel contempo, rafforza il proprio ruolo di potenza mediana che può dialogare con tutti. Dietro questa apparente neutralità si cela però una linea di fondo chiara: la Cina vuole stabilità nella regione per garantire il flusso costante di energia. Un conflitto aperto tra Israele e Iran, con il rischio reale di blocco dello stretto di Hormuz, metterebbe a rischio le forniture cinesi e costringerebbe Pechino a scelte più esplicite. Proprio per questo motivo la diplomazia cinese si è mossa, anche dietro le quinte, cercando di arginare l’escalation.

In parallelo, la Russia osserva con attenzione. Anch’essa esportatrice energetica e in tensione con l’Occidente, ha stretto negli ultimi anni legami più forti con l’Iran, anche in funzione anti-NATO. Una crisi prolungata in Medio Oriente, che faccia salire i prezzi del petrolio, potrebbe addirittura avvantaggiarla sul piano economico, rafforzando le sue entrate in valuta e aumentando la pressione sull’Europa. Tuttavia, Mosca sa bene che un’escalation incontrollata potrebbe generare instabilità che sfugge anche al suo controllo, soprattutto nei paesi islamici dell’ex sfera sovietica.

Sul fronte arabo, l’Arabia Saudita gioca una partita doppia. Da un lato, mantiene un’alleanza storica con gli Stati Uniti e una rivalità profonda con l’Iran. Dall’altro, ha avviato negli ultimi anni un processo di distensione con Teheran, favorito proprio dalla mediazione cinese. Riad teme un confronto diretto nella regione, che potrebbe compromettere le sue infrastrutture petrolifere e rallentare la propria strategia di diversificazione economica. La stabilità è interesse comune delle monarchie del Golfo, tutte esposte a eventuali rappresaglie iraniane in caso di guerra aperta.

Infine, resta l’ombra dell’intervento americano. Washington ha storicamente garantito il libero passaggio nello stretto di Hormuz e non accetterebbe mai un suo blocco duraturo. La presenza militare USA nella regione è pensata anche per questo. Ma dopo il disimpegno parziale degli ultimi anni e la crescente attenzione verso l’Indo-Pacifico, l’America si trova oggi davanti a un bivio: rafforzare la deterrenza o rischiare di essere percepita come meno influente.

Un attacco diretto degli Stati Uniti contro l’Iran rappresenterebbe un punto di rottura drammatico. Da un lato, segnerebbe il ritorno a una logica bellica che sembrava, almeno formalmente, superata. Dall’altro, produrrebbe una reazione a catena difficile da contenere. L’Iran non è più il paese isolato degli anni Ottanta: ha alleanze strategiche solide con Russia, Cina, Siria, Hezbollah e diverse milizie sciite nella regione. Un’azione americana verrebbe letta come una dichiarazione di guerra all’intero asse anti-occidentale. L’ipotesi di una risposta asimmetrica, attraverso attacchi in Iraq, Siria, Libano o addirittura cyber-attacchi su scala globale, è più che realistica.

Le ripercussioni economiche sarebbero immediate. I mercati energetici reagirebbero con forti impennate dei prezzi, destabilizzando anche le economie occidentali. Non è escluso che lo stesso Iran, per rappresaglia o per strategia, possa attuare una chiusura temporanea dello stretto di Hormuz o colpire infrastrutture energetiche saudite o emiratine. Tutti scenari già sperimentati a bassa intensità in passato, ma che in un contesto di guerra aperta assumerebbero un peso ben diverso.

Al tempo stesso, un attacco americano rischierebbe di ricompattare internamente il regime iraniano, rafforzando proprio quella classe dirigente che l’Occidente ha sempre cercato di isolare. La narrativa dell’aggressione esterna, già fortemente radicata nella cultura politica iraniana, troverebbe nuovo ossigeno.

La crisi tra Israele e Iran si muove dunque su più livelli. Quello economico ed energetico è tra i più delicati, poiché coinvolge attori globali con interessi divergenti ma interdipendenti. Ma l’eventualità di un attacco americano, oggi forse remota ma non impossibile, rappresenta la linea rossa oltre la quale la crisi regionale potrebbe trasformarsi in un conflitto globale.

Ecco la parte scritta successivamente:

Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2025, alle 2:30 ora iraniana, gli Stati Uniti hanno lanciato bombardamenti mirati contro tre siti nucleari iraniani —Fordow, Natanz e Isfahan — impiegando bombe bunker-buster GBU-57 da 30.000 lb sganciate da bombardieri B‑2, affiancati da decine di missili Tomahawk da sottomarino .

Il presidente Trump ha definito l’azione “spettacolare, di pieno successo”, annunciando la “totale distruzione” degli impianti e chiarendo che gli aerei sono “tornati in sicurezza” .

Effetti sull’energia e l’economia:

Rischio di blocco totale dello stretto di Hormuz: l’Iran potrebbe rispondere chiudendo questo corridoio vitale per il 20% del petrolio mondiale, scatenando impennate immediate del prezzo del greggio.

Crollo delle esportazioni iraniane: la distruzione dei centri nucleari riduce la capacità di Teheran di contrattare e alleggerisce la pressione sulle sanzioni, complicando ulteriormente le dinamiche di mercato.

Aumenti speculativi immediati: aspettati rialzi nei mercati energetici – già in tensione – con il rischio di shock inflazionistici globali.

Reazioni geopolitiche:

Iran denuncia una “grave violazione” del diritto internazionale e avverte che “tutte le opzioni sono aperte” – compreso il possibile lancio di missile contro asset americani o la chiusura dello stretto .

Israele, partner coordinatore dell’azione, elogia pubblicamente Trump, dichiarando di sentirsi “molto più sicuro” .

La Cina, grande importatrice del 90% del petrolio iraniano, ha già ribadito con altri attori globali l’urgenza di de-escalation; ora potrebbe reagire energicamente per proteggere le forniture vitali .

La Russia mantiene prudenza, osservando come ogni instabilità possa far salire i prezzi petroliferi — a vantaggio della sua economia — ma evitando di trovarsi direttamente coinvolta.

Arabia Saudita e monarchie del Golfo sono sul filo: da una parte temono ritorsioni e interruzioni strategiche; dall’altra non vogliono essere escluse dalla coreografia energetica mondiale.

Conseguenze economiche a catena:

Shock energetico globale: l’attacco potrebbe generare uno spike immediato dei prezzi del petrolio, con effetti inflazionistici globali, indebolimento della crescita e rialzo dei costi energetici per famiglie e imprese.

Volatilità finanziaria: gli investitori si rifugeranno in asset difensivi (oro, titoli di Stato), mentre le borse potrebbero registrare forti oscillazioni.

Deterrenza USA rafforzata: Washington dimostra un ritorno aggressivo in Medio Oriente, con evidenti implicazioni strategiche — ma possibili ripercussioni politiche alla luce del dibattito interno sul ricorso alla forza senza mandato del Congresso.

L’attacco notturno degli USA ha spostato la crisi in una dimensione assai più pericolosa. L’economia del conflitto — legata all’energia — risulta ora in bilico tra shock da interruzione delle forniture e reazioni di mercato imprevedibili. La Cina, la Russia e le monarchie arabe seguiranno ogni mossa con occhi attenti, non solo militari ma anche economici.

E se Mosca potrà beneficiare di prezzi più alti, Pechino rischia di subire un duro colpo nelle sue catene di approvvigionamento energetiche.

Resta da vedere se la risposta iraniana si limiterà a missili e guerre-asimmetriche oppure se riuscirà a interrompere davvero il traffico marittimo – innescando una crisi energetica mondiale.

E intanto anche in Italia c’è gente che pianta la tenda, accampandosi davanti a negozi, aspettando ore e ore per accaparrarsi dei modelli rari di bambole labubu. Una é stata venduta all’ asta per 130mila euro. Probabilmente questa gente non vive sullo stesso pianeta…

Questo articolo ha 4 commenti

  1. Renato

    Ottimo articolo, chiaro ed esplicativo, a buon intenditore poche parole…

    1. Marco Lazzara

      Grazie Renato.
      Un caro saluto.

  2. monica

    Articolo molto interessante e chiaro grazie! Da poco le tv arabe hanno dato notizia di un attacco iraniano sui pozzi americani in Qatar, tra un giorno o due la vedremo sui nostri giornali. Non ci sono vittime. Gli americani dicono si tratti di siti non più produttivi (sarà vero? il qatar invita i cittadini alla calma e a non lasciviare il paese perché “non c’è pericolo” 🤔

    1. Marco Lazzara

      Grazie a te Monica.
      Vedremo l’evolversi della situazione.
      Ogni notizia, purtroppo, va verificata ormai da più fonti…
      Se fai attenzione al modo con il quale, a prescindere dalla testata, vengono date la notize si cerca di adeguare il modo con il quale viene data la notizia alla “narrazione” che si è scelto di dare.
      Così fanno anche i governi.
      “Non c’è pericolo.”

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